La scrittura collettiva, esperienza efficace per trasformarci in cultori di sogni altrui

La stagione che stiamo attraversando, l’autunno, ci invita a ri-abitare le nostre case, i nostri salotti, a gustare momenti conviviali che “riscaldano le ossa” dopo una giornata di lavoro trascorso magari tra le temperature che si abbassano e l’umidità che sale, a rilassarci nella serata davanti a un film o documentario; in altre parole, a ritrovare il calore della casa… quella casa che è il simbolo dei nostri legami, dove tutto prende vita. Se facciamo un salto nel tempo, in queste stesse case, in questo stesso periodo, il protagonista principale era un “fuoco”, attorno al quale si raccontavano storie di vita, aneddoti tramandati da nonni a nipoti, esperienze vissute nell’infanzia, fatti del giorno, inoltre si scambiavano opinioni, si condivideva la cena o semplicemente ci si riscaldava. Chi non ricorda questi momenti, magari accompagnati dallo scoppiettio  delle castagne e il profumo del vin brulè… proprio attorno al fuoco, quello stesso “fuoco” che San Francesco lodava e ringraziava «lo qual’è iorno, et allumini noi per lui. Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore: de te, Altissimo, porta significatione».

Immagine sempre più rara ma non per questo un lontano ricordo che si ferma a una forma di nostalgia, bensì ci invita a “ritornare” (non a caso la radice della parola indica proprio questo) per scoprire il valore e il senso di quelli che oggi stigmatizziamo come semplici “ricordi” che non hanno più alcun legame costruttivo con qui ed ora della nostra storia. Certo, oggi i luoghi di incontro sono cambiati, le modalità sembrano aver mutato la fisionomia ma una cosa rimane vera: il bisogno di raccontarsi. Potremmo dire che se questo bisogno attraversa le generazioni fin dall’origine del genere umano, allora un motivo esistenziale c’è e vale la pena riporlo al centro delle nostre relazioni per mantenerle salutari e costruttive.
«Storia, letteratura, poesia, filosofia, arte, vita vissuta: tutto ciò che vale la pena di essere conosciuto ha bisogno di qualcuno che ne parli. Saranno anche oggetti impalpabili, per qualcuno obsoleti, ma è di questa materia che sono fatti i fili con i quali tessiamo il nostro destino» (N. Mostarda, La società adolescente. Rubettino Editore).

Esiste quindi una colata d’oro che lega costantemente passato e presente, presente e futuro e nel suo brillare, attraverso le testimonianze, insegna che nulla esiste per caso ma tutto ha una storia: dalle radici al frutto scorre una linfa che non svanisce via ma unisce, e nello scorrere del tempo realizza ciò che custodisce al suo interno. Ebbene, oggi, dove il tempo sembra scorrere senza lasciare traccia, «niente viene più raccontato, niente più viene tramandato» (cit., p.37). Basterebbe chiedere a qualche genitore cosa raccontano i propri figli al termine di una giornata, oppure cosa raccontano i genitori ai propri figli: la risposta classica è “niente”, “tutto normale”, “niente di particolare”. Eppure qualcuno potrebbe esordire: “Ma come?” Una giornata di scuola o di lavoro e la sintesi è “niente”? Vuol dire che tutto è trascorso scivolando senza penetrare la grezza quotidianità, unica e irripetibile. È sintomo di un malessere che pervade le nostre giornate, in particolare dei più giovani e il motivo è assai chiaro in quanto «viviamo in un eterno presente, fatto di presente e di futuro, in cui il passato ha perso la sua funzione più importante: comprendere chi siamo e da dove veniamo».
Al termine dell’estate appena trascorsa, ho incontrato un docente di religione in una scuola superiore e tra una chiacchierata e l’altra mi ha detto: “Parlavo ai miei alunni della guerra, ammonendoli al fatto che essa è molto vicina a noi e, vista la situazione basta poco per sprofondare in una guerra globale”. La risposta di un adolescente, assecondata poi da altri compagni, è stata mortificante: “A noi non interessa per il momento… non è qui… quindi viviamo bene ora e godiamoci la vita”.

Quel passato custodito nella storia, trasmesso di generazione in generazione attorno al fuoco, dove è finito? Sembra essere evaporato… è chiaro che «senza trasmissione non c’è più memoria delle origini, non c’è più proiezione nel futuro e noi cadiamo nelle barbarie».  Si genera così un «rumoroso vuoto narrativo» nel quale ognuno mette al centro dell’azione il proprio “io” privo della relazione vitale con un “tu”, favorendo il serpeggiare dell’egoismo e dell’individualismo: la testimonianza si offre come una porta aperta che introduce nella relazione con l’altro, il parlare e l’agire egoistico invece è una forma di seduzione, come attestano i numerosi tragici fatti di cronaca famigliare e giovanile. Ripristinare il valore originario del dialogo e del racconto permette al «linguaggio di esplorare la ricchezza delle esperienze umane e dei sentimenti che suscitano all’interno di ciascuno».  Oggi siamo, giovani e adulti, ormai abituati a «cliccare o scorrere» pensando di trovare un rimedio giustificativo all’assenza relazionale, ma purtroppo questi non sono gesti narrativi: «lo smartphone permette solo uno scambio sempre più veloce di informazioni» tanto è vero che oggigiorno «siamo meglio informati ma completamente privi di orientamento».


Perché, forse, questi non sono gesti narrativi? Le informazioni che giungono sono come tanti piccoli frammenti: ciò lo sperimentiamo ogni qualvolta giunge a noi qualche notizia tramite i mezzi di comunicazione. Tutto ciò rende le informazioni una mera sequenza di momenti presenti mentre il racconto fa emergere un «continuum temporale» che costruisce una storia ma è necessario ricordare che «raccontare presuppone un restare in ascolto e un’attenzione profonda».  E, di riflesso, tempo, pazienza, cura e passione: purtroppo dobbiamo costatare che «noi perdiamo a vista d’occhio la pazienza necessaria per restare in ascolto, cioè la pazienza necessaria per raccontare». La prova tangibile è che oggi i nostri giovani adolescenti «non cercano più storie ma stories, sono circondati di informazioni non di racconti e così facendo non trattengono nulla, l’incanto è fuggito via, le cose non entrano più in relazione tra loro e la vita prende i connotati della casualità e dell’indifferenza». E allora «come possono i ragazzi di oggi, fragili e immaturi, credere nelle proprie capacità, avere curiosità per la vita, se nessuno gli conferma che hanno delle qualità, possiedono del talento e che vivere è un’avventura che vale la pena?».
È una grande sfida, all’apparenza facile se si trattasse di elaborare e applicare teorie filosofiche o pedagogiche dei secoli precedenti, ma molto più impegnativa poiché i nostri adolescenti, specchiandosi nella nostra coerenza ed esemplarità, sanno metterci alla prova precisamente come si saggia «l’oro nel crogiuolo».

La filosofa Nathalie Sarthou-Lajus, sussurra una pista: «Abbiamo bisogno di trasmettitori, di passeur, che facciamo emergere la curiosità dell’altro e favoriscano il gusto per la ricerca della verità». Dobbiamo impegnarci per evitare di correre il rischio di replicare, come è avvenuto involontariamente negli anni passati, solo per il fatto che “una volta era così”: infatti «credere di poter possedere al modo dei nostri genitori ciò che ereditiamo è illusorio. Il contenuto trasmesso a ogni generazione è da riprendere ogni volta in modo nuovo. Se perdiamo la capacità di narrare, l’avremo persa per sempre». Trasmettere non significa prendere dal passato e consegnare alle nuove generazione, esattamente come si fa con una scatola regalo chiusa, bensì «è inserire l’essere umano nella catena delle generazioni e mostrargli che egli è uno tra altri». Per questo «avremo sempre bisogno di passeur capaci di trovare la giusta distanza con sé stessi e con il bambino, senza ricatti o proiezioni narcisistiche, per nutrire sogni che non saranno i loro».

E l’umile tecnica della scrittura collettiva si propone di riaprire la strada, per rimettere al centro il presente in un costante dialogo con il passato, aprendo gli occhi verso la realizzazione dei sogni di cui non siamo i proprietari ma semplicemente “sognicoltori”…

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