La panchina distrutta, metafora
metafora del mettersi in gioco

Sulle considerazioni proposte sul campo da uno studente, tutta la classe dibatte e scrive in scrittura collettiva.
Il titolo del capitolo è “La panchina distrutta”: contesto di realtà, nel contesto di realtà, cultura informale come patrimonio di tutti.
Apprendimento al quadrato, elevato alla ennesima potenza.

La panchina distrutta nel film di Alessandro d’Avenia Bianca come il latte, rossa come il sangue, è simbolo di qualcosa che i giovani ritengono irrimediabilmente perso, smarrito. Ogni volta che un ostacolo fa capolino nella vita, diventa un impedimento insormontabile che chiude i gangli vitali della linfa che in essi abita.
Così scrive Domenico Pesenti studente di terza media, raccontando che “può essere un inganno mentale il fatto che noi ci arrendiamo a distruggere, pensando di aver perso tutto”. Domenico è colpito e folgorato dalla capacità autodistruttiva dell’uomo perché si accorge che nella testa spesso si attiva un meccanismo di autodifesa che impedisce di mettersi a rischio e in gioco, senza avere in mano tutti i fattori e questo può limitare moltissimo le nostre attese e potenzialità reali.

Aggiunge l’esempio delle montagne russe di cui quando si è piccoli si ha paura, ma poi il gusto provato nel mettersi in gioco, ci invita inevitabilmente a ripetere il percorso perché una volta allenati, conquistato e padroneggiamo il senso del limite. Domenico afferma di aver visto in Leo, il protagonista del film, il momento in cui è riuscito a superare un momento di difficoltà traendo riposo dalle sue emozioni.
Si evince che esse sono importantissime, ma quando ci spingono troppo in là scatenano in noi alcuni eccessi e ci fanno esplodere. Apre poi una considerazione bellissima sulla esplosione e la implosione, aggiungendo che gli sembra più pericoloso implodere: quando si tratta di una panchina infatti, tutto si può sistemare, ma se ci si distruggesse da soli, molte ferite sarebbero irrimediabili.
Anche qualora si guarisse da autolesionismi o disturbi alimentari, resterebbe una cicatrice e una ferita dopo l’altra genererebbero nel corpo una debolezza tale, per cui le strutture non terrebbero più e si diventerebbe come uno straccio, una pezza.
La domanda allora è: perché siamo una razza così autodistruttiva, perché ci accorgiamo di dipendere dal male senza riuscire a distaccarcene?
Ecco la conclusione: “Il nostro subconscio sarà pure uno dei più sviluppati ma è anche il più controverso . Tutti possiamo finire nell’inganno, ma la cosa importante è riuscire a vincere su se stessi”.
Sviluppi in classe, prestissimo il nuovo report di aggiornamento.

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