La Pedagogia dell’aderenza,
dove nasce la conoscenza

A Barbiana i ragazzi siederanno attorno ai tavoli. Saranno eliminati pulpiti e cattedre. La scuola, nata il giorno stesso dell’arrivo del Priore, prenderà lentamente una forma sempre più circolare. In uno spirito cooperativo e di ricerca l’intera Comunità lavorerà su progetti d’utilità comune, quali la formazione, l’acquedotto, la strada, i laboratori. Le prime lezioni del Priore consentiranno agli adulti del nuovo popolo di prendere la patente della moto e di liberarsi dall’isolamento.
Solo dopo qualche tempo istituirà un doposcuola di supporto alla scuola elementare di Padulivo, aggregato di case a 1 km dalla chiesa. Era una pluriclasse con un’unica insegnante per tutti i bambini. Più tardi, dopo la stesura di Esperienze Pastorali, fonderà una scuola d’avviamento professionale, a tempo pieno, che con la riforma del ’62 diventerà Media Unificata. Le lezioni inizieranno la mattina all’otto e termineranno alle 20. Non era raro che proseguissero anche il dopocena. Di certo, nel periodo in cui fu scritta e pensata Lettera a una professoressa, si trattava di una scuola superiore. La freschezza intellettuale e la ricchezza culturale del maestro sapranno aderire alle necessità e alle risorse umane e materiali già presenti su quel territorio. I rumori erano allegri e la scuola divertente, si deduce anche dai racconti che fa alla madre: “Oggi abbiamo costruito una grande giara di legno e tela di sacco e stasera andiamo alle Casacce col trattore a prendere un carico di legname da muratori gentilmente offerto dal mio intimo amico Mayer per costruire il palcoscenico. Lo montiamo sull’aia e l’Ammannati tornerà domenica con la macchina da presa per riprendere a colori la Giara più realisticamente sceneggiata che sia mai stata fatta. Gli attori sono gli allievi di don Palombo”.
In realtà la scuola ebbe un’evoluzione propria che non teneva conto di nessuna denominazione istituzionale. Era soltanto tesa a formare l’uomo e lo faceva organizzando vere e proprie lezioni di vita. Il 13 agosto del ’59 scrive, sempre alla madre, a proposito di un pastore valdese di Torre Pelice, Roberto Nisbet che era stato in visita a Barbiana il giorno precedente: “Gli ho fatto fare scuola dalla mattina alla sera e era commosso e entusiasta”. La sera dello stesso giorno riprendendo la lettera interrotta, stanco morto per le nuove visite e lezioni: “Stamani due preti a cui ho fatto far lezioni di canto. E stasera un giovane fotografo che ci ha insegnato lo sviluppo e la stampa. Abbiamo finito in questo momento e sono già le 9, tutti i ragazzi han provato a fotografare e poi sviluppare e fissare le loro foto. Tutti contentissimi naturalmente …”. In un’altra lettera sempre alla madre dirà: “Ti ho detto che abbiamo ammazzato una vipera qui sulla strada nel fosso dei tigli? Là dove stiamo a scuola d’estate. Prima di ammazzarla abbiamo avuto il tempo di studiarla tutti ben bene tenendola ferma sotto un bastone. Abbiamo confrontato tutti i libri che abbiamo e non c’è dubbio. È uno degli effetti dello spopolamento …”.

In questo modo, il Priore esprimeva un amore d’intelligenza rara che diventava coinvolgimento totale tra il maestro e l’allievo, tra il prete e il suo popolo. Tra l’uomo e i suoi amici. Un “vero e proprio patto di fiducia-alleanza, come ricorda Aldo Bozzolini, uno dei primi allievi, tra lui e le famiglie”. Le quali non lo abbandoneranno mai. I babbi diventeranno dei pendolari, preferiranno allungare la loro giornata di fatiche pur di lasciare i figlioli alla scuola del prete. A cena i ragazzi raccontavano tutto ai loro genitori.
Il popolo di Barbiana sparirà pochi giorni dopo la sua morte. Abbiamo chiamato questo modo d’insegnare e apprendere direttamente dalla realtà: PEDAGOGIA DELL’ADERENZA.
Partendo dall’ambiente in cui vive, l’allievo organizza e costruisce la propria conoscenza. Il docente, nel costruire i significati, struttura, con il discente, un ambiente d’apprendimento di partenza. Dal particolare all’universale. Dalla patente per l’uso della moto alla Scuola di Servizio Sociale: dove furono formati prevalentemente sindacalisti, operatori sociali e insegnanti. Allievo e maestro pattuiscono le regole comuni. Mi ci volle un anno per comprendere ed accettare di restare.

METODOLOGIE DIDATTICHE
È vero, quando parliamo di metodologie didattiche oggi usiamo un linguaggio molto raffinato: didattica per obiettivi, ricerca/azione, cooperative learning, didattica per concetti, per competenze, sfondo integratore, ossia l’involucro, il contenitore che determina l’unità del percorso educativo, la percezione dei nessi, il senso della continuità che collega le molte attività didattiche che altrimenti resterebbero disperse e frantumate. Per Lorenzo Milani tale sfondo era sia relazionale sia istituzionale, consonante con la sua metodologia, perché legato nei suoi intenti al circostante la sua scuola. Pur essendo cosciente che non è la tecnica l’anima dell’insegnamento, ci spiegherà che l’arte dello scrivere si può apprendere ed insegnare.
Nella lettera alla signora Lovato scritta il 16 marzo 1966, Lorenzo difende il suo metodo. Rifiuta, nella scrittura, qualsiasi segno di personalizzazione. Prima di continuare proviamo ad immedesimarci in quel luogo e tempo, se vogliamo capire lo spirito con il quale praticava pastorale e insegnamento. Barbiana non è più isolata. Lo scalpore provocato dal processo, in seguito all’accusa di apologia di reato che lo aveva condotto in tribunale per difendersi, aveva generato attorno a lui molta solidarietà.

Ma il suo scopo nello scrivere con i ragazzi era un altro:
“Cara signora, da qualche mese in qua la posta che riceviamo è tanta che facciamo appena in tempo a leggerla. Io poi sono malato e da molto tempo non prendo in mano la penna. Un ragazzo o due a turno sbrigano tutta la corrispondenza, mi sottopongono solo le lettere che giudicano più private. Così accade che rispondo a lei. Mi ricordo che nel ’58 quando uscì il mio libro “Esperienze pastorali” (non ne ho scritti altri, quello sull’Obiezione della Locusta è una pubblicazione illegale. Ho diffidato l’editore dal seguitare a venderla, ma quell’onesto farabutto non se n’è dato per inteso) mi scrisse e poi venne a trovarmi un anziano signor Lovato vegetariano e veronese, se non sbaglio leggermente zoppo. Era un uomo simpaticissimo e i ragazzi più grandi serbano ancora il ricordo di alcune sue curiose motivazioni sul vegetarianesimo. Cos’è di lei. Me lo saluti e gli dia una copia dell’edizione mia che le accludo e che è l’unica che approviamo.
Rispondo ora a lei. Grazie della sua lettera. Spero di vederla un giorno quassù. Sto disfacendo la scuola. Ho mandato i più grandi a lavorare. Non prendo più ragazzi nuovi. Ho ancora una decina di ragazzi a cui faccio scuola qui in camera. Oppure quando son stanco si fanno scuola l’un l’altro nell’aula che comunica con questa camera. Allora la mia attività pedagogica consiste solo in qualche urlaccio per tenerli buoni. Ho una leucemia e non voglio morire stupidamente sulla breccia con ragazzi immaturi mezzo educati e mezzo no. Così sto organizzando da un anno un ragionevole e riposante tramonto. Mi godo i figlioli riusciti e i loro bambini. Ricevo con commozione i prodighi che tornano. Tengo lontani i prodighi che non tornano. Insomma vivo come un nonno amato e mi godo questa vita. Abbiamo scritto la lettera ai giudici come un’opera d’arte. Purtroppo nelle centinaia di lettere che ci arrivano dall’Italia e dall’estero ci accorgiamo che pochissimi se ne sono accorti. Tutti pensano che abbiamo delle bellissime idee. Pochi, forse due o tre persone in tutto, si sono accorti che per schiarire le idee così a noi stessi e agli altri bisogna mettersi a lavorare tutti insieme per mesi su poche pagine. Allora tutti sapranno scrivere come noi e non ci sarà più bisogno di rivolgersi a noi con venerazione come se fossimo toccati dalla grazia. Chiunque se vuole può avere la grazia di misurare le parole, riordinarle, eliminare le ripetizioni, le contraddizioni, le cose inutili, scegliere il vocabolo più vero, più logico, più efficace, rifiutare ogni considerazione di tatto, di interesse, di educazione borghese, di convenienze, chieder consiglio a molta gente (sull’efficacia non sulla convenienza). Alla fine la cosa diventa chiara per chi la scrive e per chi la legge. La lettera ai giudici è stato un dono che abbiamo ricevuto e abbiamo fatto. Prima di scriverla né io né i ragazzi sapevamo quelle cose. Le intuivamo né più né meno di quello che lei ha detto di se stessa: “Ero arrivata a capire da sola molte delle cose…”. Mi scusi, mi son distratto, le stavo dando una lezione dell’arte dello scrivere che lei non mi aveva chiesto. Ma è che l’arte dello scrivere è la religione. Il desiderio d’esprimere il nostro pensiero e di capire il pensiero altrui è l’amore. E il tentativo di esprimere le verità che solo s’intuiscono le fa trovare a noi e agli altri. Per cui esser maestro, esser sacerdote, essere cristiano, essere artista e essere amante e essere amato sono in pratica la stessa cosa”. Tale pratica c’invita a capire alla luce dei processi interpretativi implicati nel fare significato. “Non tener conto delle limitazioni biologiche del funzionamento umano è peccare di superbia. Sottovalutare il potere della cultura di plasmare la mente umana e rinunciare ad assumere il controllo di questo potere è commettere suicidio morale ”. Un suicidio che è ormai sotto i nostri occhi e che era prevedibile. È a Barbiana che il profilo dell’educatore si trasformerà in: regista e portatore di strumenti. Per questo motivo la sua esperienza anticipatrice è conducibile, con un po’ di “provocazione”, alla scuola di domani, ossia a una scuola “post-attiva”.


IL LABORATORIO MASSIMO DELLA SCUOLA DI BARBIANA
Siamo così giunti ad una delle questioni principali che stanno all’origine del nostro lavoro: il valore degli strumenti per don Milani. Dei quali la parola è il primo. Oggi l’apprendimento è raggiungibile solo per mezzo di un’idea: il laboratorio massimo. A Barbiana non esisteva il libro di testo. Nel nostro centro redazionale, il momento e il luogo della fruizione del libro, lo strumento didattico, coincideva spesso con la produzione dello stesso. C’era per ciò una totale integrazione tra scuola e lavoro. Il supporto concreto alla didattica erano i vocabolari. Li avevamo tutti. Un altro supporto erano la Treccani e la biblioteca che a ferro di cavallo circondava la stanza principale della canonica.
Era comune interrompere la lezione per correre dietro alle origini, alle etimologie delle parole più astruse e sconosciute. La realtà, introdotta principalmente dal giornale e dalla corrispondenza, rappresentava la base e il fondamento d’ogni disciplina. Il materiale didattico prodotto si sviluppava sempre per argomenti. Lo schema storico non era di tipo consequenziale, ma si costruiva spesso andando a ritroso. Cercando i significati e le origini di un termine casualmente letto o citato.
Mettendo in risalto gli aspetti che più ci avevano impressionato, tingevamo, per esempio, di colore nero la cartina dell’Europa ad indicare le invasioni della Germania nazista e dell’Italia fascista. Così la Storia si legava alla Geografia in un unico schema spazio temporale. Sui tavoli della scuola costruivamo le nostre cartine geografiche, accompagnate da schede indicative. Ognuna illustrava una caratteristica, linguistica, economica o politica. Così la monografia rappresentata consentiva, con un solo sguardo, di individuare i momenti chiave dei processi di decolonizzazione dell’Africa. Due alberi disegnati su un supporto di compensato, uno grande e uno piccolo, rappresentavano rispettivamente e in scala, la tassazione indiretta e diretta. Esprimevano in un colpo d’occhio l’ingiustizia sociale. “Uno strumento, costruito a proposito nei nostri laboratori, ci racconta sempre Aldo, con dei tubi ricavati dalle colate delle docce, consentirà di fotografare e sviluppare, in negativo su carta fotografica in bianco e nero, le fasi di un’eclissi di sole. Ci divertivamo a misurare le distanze tra il campanile di San Martino e la stazione di Vicchio con un teodolite che avevamo costruito noi, uguale a quello con il quale i geometri rilevano i punti cospicui per costruire le strade oppure fare rilevazioni topografiche”.
Anche le lingue, imparate direttamente all’estero, erano insegnate in lingua madre, anche ascoltando le canzoni dei cantautori stranieri: Bob Dylan e Georges Brassens, con vecchi registratori a nastro e tanti dischi. Chi arrivava presto la mattina era solito trovare il Priore che preparava i materiali oppure registrava dalla radio le lezioni d’inglese, francese, tedesco o spagnolo. Altri strumenti importanti erano il telescopio, il laboratorio fotografico, l’officina e la falegnameria.


Nel 1965, insieme all’elettricità, arriveranno le macchine calcolatrici dell’Olivetti e il cineproiettore portato da mio cognato Luigi Lattuada. Oggi, con le nuove tecnologie della comunicazione, la scuola non può che dare centralità a un metodo che pone nella “cassetta degli attrezzi” la Stazione Multimediale, con tutte le periferiche e collegata in rete telematica. Oggi rischiamo di passare dall’astrattismo di ieri all’incapacità di trasmettere le competenze necessarie per usare i nuovi strumenti della comunicazione, i quali da soli integrano la scuola alla vita e al mondo del lavoro. Alla scuola di Barbiana noi, figli di contadini, trovavamo la nostra identità e gli strumenti che ci rendevano capaci di esprimere la nostra cultura. Eravamo protagonisti attivi: self help e tutoraggio. In tale intelaiatura, l’educatore si trasformava da trasmettitore delle conoscenze in costruttore di schemi logici e di contesti flessibili, un intreccio d’idee e di fatti idonei a produrre apprendimento. Il nostro maestro, privilegiando l’approccio globale, non rispetterà gli orari oppure la progressione lineare delle singole discipline. Non disgiungerà mai la cultura umanistica da quella scientifica. Quando il professor Agostino Ammannati veniva a trovarci il Priore gli cedeva volentieri il posto per insegnare i Promessi sposi e la Divina Commedia, dimostrando umiltà e rispetto. A Barbiana che era un vero e proprio centro editoriale, il tempo e il luogo della fruizione dello strumento didattico coincidevano con il momento e il luogo della produzione.
Gli strumenti che mancavano si potevano inventare come racconta lui stesso in una lettera: “Abbiamo fatto fare un microfilm della partitura dell’allegretto della VII (sinfonia di Ludwig van Beethoven) e lo proiettiamo sullo schermo nel tempo che gira il disco. S’è fatto e rifatto tante volte quanto è bastato al più duro dei ragazzi a imparare a seguirla tutta colla canna voce per voce. Insomma una soddisfazione immensa…”.

Come nasce “Lettera a una professoressa”
Andiamo per gradi e vediamo come da un dettaglio, un articolo di giornale, sia stato possibile produrre la Lettera ai giudici. In questo caso non c’è stato un vero e proprio uso del notes e dei fogliolini. Non c’è stato il tempo per una vera e propria scrittura collettiva. Eppure la stesura di questa lettera rappresenta il periodo più ricco della scuola. Riassumo sinteticamente le fasi dell’itinerario di quella regia e lavoro di gruppo il cui input fu dato dall’articolo della Nazione, che mi pare fosse stato portato dall’Ammannati e da Ferrero Facchini, amici cari a Lorenzo. Siamo nel ’65. Tutti i pomeriggi, subito dopo mangiato, leggevamo la corrispondenza e il giornale. In quell’occasione il comunicato dei cappellani fu messo in evidenza. Tutta la rete di relazioni che ruotava attorno alla Comunità di Barbiana fu mobilitata. Il Priore scrive quasi di getto la Lettera ai Cappellani Militari.
Lo scritto letto e riletto è sottoposto a revisione. Molte sono le matrici battute a macchina dai ragazzi e ciclostilate mentre la forbice e la colla scomponevano e ricomponevano i paragrafi cercando di trovare logiche d’aggregazione dei contenuti. Nascevano i capitoli che si collocavano su di uno schema che cambiava continuamente. Giuristi, come l’amico Giancarlo Melli, furono costretti a riflettere ignorando il rischio.
Bisognava cercare verità oggettive. La legge doveva cambiare. La lettera viene incriminata. La lettura collettiva della denuncia e degli articoli dei giornali che l’accompagnavano diventò motivo di grandi discussioni. La corrispondenza di quei giorni è ricca di elementi per capire il nostro laboratorio e l’intensificarsi delle relazioni, diventate ormai internazionali. Anche Erich Fromm si interesserà a don Milani. Si decide la difesa. Il Priore elabora uno schema di partenza. Produce subito un percorso di ricerca sulla storia, a partire dalle guerre del risorgimento italiano fino a giungere all’unificazione. Lo fa principalmente mettendo a confronto testi come il Saitta e Mck Smith che furono letti in modo sinottico. Il primo ci viene presentato come la voce ufficiale della scuola di stato e subito se ne deduce il punto di vista. Il secondo è libero e spregiudicato. Lo si capisce subito, perché don Lorenzo lo predilige anche se ci avverte che è un inglese. Più affidabile per alcuni motivi, inaffidabile per altri.
Affidabilissimo per il giudizio dato su Garibaldi o Nino Bixio, sterminatore di contadini. Interi concetti vengono estrapolati, discussi e sviluppati, in interminabili giornate di lavoro che coinvolgeranno degli esperti esterni: gli storici. Anche i contadini che hanno fatto la guerra montano in cattedra. Sono proprio loro a valorizzare il punto di vista di chi è stato manipolato e a svalutare il pensiero comune incapace di critica. Con l’intero popolo di Barbiana, che comprendeva anche i tanti amici che per abitudine salivano a trovarci, si verifica la stesura del testo, a tutti i livelli, per renderlo comprensibile anche a chi non aveva una cultura alta. Per mesi la scuola sembrava svolgere solo una disciplina: la storia. Dentro tale metodo, invece, si ricomponevano tutte le materie. Il prodotto finito era sempre una lettera: un tema d’italiano che si legava automaticamente al rapporto fra chi scrive e chi legge. A testo ultimato fu importante coinvolgere nel dibattito i centri editoriali esterni: come i giornali e le riviste. Analizzare insieme i comportamenti dei Media e il loro uso fu una cosa entusiasmante. Il Priore a volte anticipava i risultati di un editoriale o metteva a fuoco l’importanza di un amico come Mario Cartoni che, pur agendo all’interno di un quotidiano come la Nazione, riusciva a tenere il filo del discorso in maniera più oggettiva di altri.

Lo schema della Scrittura Collettiva
Per capire più nel dettaglio questa metodologia e viverla attraverso un’esperienza anche didattica, ossia non mediata da influenze esterne o di comodo, v’invito a rileggere, se l’avete dimenticata, la corrispondenza tra Barbiana e Mario Lodi.
In tali lettere si parla di vocabolario attivo: le parole usate. E di quello passivo: le parole conosciute. La scrittura collettiva, dice il Priore, attraverso il dialogo con il maestro e l’interazione tra gli allievi, consente di trasferire le idee, dal livello dell’orecchio, a quello della bocca e della penna, arricchendo in modo esponenziale il linguaggio personale e collettivo. I titoli al bordo d’ogni paragrafo delle scritture collettive non sono altro che piccole mappe concettuali, la sintesi dei famosi fogliolini, l’idea di partenza alla quale avevamo finalmente dato un titolo. Con la “Lettera a una professoressa” il metodo si perfeziona.
Infatti, a pagina 126, proponiamo una vera e propria tecnica di apprendimento delle regole dello scrivere: Noi dunque si fa così: per prima cosa ognuno tiene in tasca un notes. Ogni volta che gli viene un’idea ne prende appunto. Ogni idea su un foglietto separato e scritto da una parte sola. Un giorno si mettono insieme tutti i foglietti su un grande tavolo. Si passano a uno a uno per scartare i doppioni. Poi si riuniscono i foglietti imparentati in grandi monti e son capitoli. Ogni capitolo si divide in monticini e son paragrafi. Ora si prova a dare un nome a ogni paragrafo. Se non si riesce vuol dire che non contiene nulla o che contiene troppe cose. Qualche paragrafo sparisce. Qualcuno diventa due.
Coi nomi dei paragrafi si discute l’ordine logico finché nasce uno schema. Con lo schema si riordinano i monticini. Si prende il primo monticino, si stendono sul tavolo i suoi foglietti e se ne trova l’ordine. Ora si butta giù il testo come viene viene. Si ciclostila per averlo davanti tutti eguale. Poi forbici, colla e matite colorate. Si butta tutto all’aria. Si aggiungono foglietti nuovi. Si ciclostila un’altra volta. Comincia la gara a chi scopre parole da levare, aggettivi di troppo, ripetizioni, bugie, parole difficili, frasi troppo lunghe, due concetti in una frase sola. Si chiama un estraneo dopo l’altro. Si bada che non siano stati troppo a scuola.
Gli si fa leggere a alta voce. Si guarda se hanno inteso quello che volevamo dire. Si accettano i loro consigli purché siano per la chiarezza. Si rifiutano i consigli di prudenza. Dopo che s’è fatta tutta questa fatica, seguendo regole che valgono per tutti, si trova sempre l’intellettuale cretino che sentenzia: “Questa lettera ha uno stile personalissimo”. Dite piuttosto che non sapete che cosa è l’arte. L’arte è il contrario di pigrizia. Anche lei, non dica che le mancano le ore. Basta uno scritto solo in tutto l’anno, ma fatto tutti insieme”. È importante accettare e applicare quest’ultima considerazione che ci costringe alla riduzione del tanto a favore del poco. La motivazione e la qualità degli argomenti, è indispensabile per aprire un varco al modo d’insegnare di Lorenzo. Il fatto che la tecnica di scrittura abbia consentito al Priore un’autodifesa e che lui abbia fortemente influenzato i contenuti di tale lavoro di gruppo (insegnanti, ragazzi, visitatori, popolo, esperti, ecc.) non significa che ciò possa diminuire il valore del metodo da lui adottato e insegnato.

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