Praticare giustizia sociale
significa non escludere nessuno

Quando ci sarà un mondo più giusto o un mondo migliore? Domanda che si sente spesso come intercalare all’interno di alcuni scambi di parole, di idee… magari attorno al tavolino di un bar o mentre si passeggia in compagnia tra i primi fiori che timidamente stanno sbocciando in mezzo alla natura. Non solo, tutto ciò sovente è accompagnato da un pessimismo abituale che sembra intralciare e ostacolare la via della giustizia sociale e del benessere: “basta vedere come stanno andando le cose… quando vuoi che arrivi un mondo più giusto, un mondo migliore, come quello di una volta?”.
Basterebbe questo per farci riflettere sul fatto che tutti ci aspettiamo proprio “un mondo più giusto” ma il problema risiede proprio nel medesimo desiderio: “tutti” si aspettano ma “pochi” si sbilanciano nel mettere le mani in pasta per architettare ed edificare ponti di umanità.

Oggi, 20 febbraio, si celebra l’annuale Giornata mondiale della giustizia sociale. E ci ricorda che la questione non riguarda gli “altri” ma anzitutto “noi” in prima persona: «assicurare pari opportunità e ridurre le disuguaglianze nei risultati, anche eliminando leggi, politiche e pratiche discriminatorie e promuovendo legislazioni, politiche e azioni appropriate a tale proposito» è il decimo obiettivo dell’Agenda 2030.
Non vogliamo aggiungere l’ennesimo problema che affligge la società odierna, ma come ci ricorda Papa Francesco: «non ci sono due crisi separate, una ambientale e un’altra sociale, bensì una sola e complessa crisi socio-ambientale» (Laudato si’, 139).

Oggi siamo travolti dall’affermazione sempre più marcata e spesso prepotente del proprio Ego: tutto ciò che abbiamo attorno ci direziona e ci sprona ad elevare la nostra immagine a discapito, e talvolta calpestando, chi con me condivide il cammino della vita. Quanto tempo investito negli ambienti di apprendimento delle nostre scuole di ogni ordine e grado per cercare di comprendere il valore e l’importanza dell’altro inteso come destinatario di pari diritti e doveri!


All’improvviso tutto ciò sembra sfumare perché si trova a far i conti, in parallelo, con una sempre più scarsa coerenza tra il “dire” e il “fare” di coloro, ovvero noi tutti, che dovrebbero essere esemplare testimonianza civile di convivenza umana.  Da qui, ha poi origine quello che tutti conosciamo come “Egoismo”, in cui  vediamo un “io” sfrenato,  artificialmente innalzato e auto-incensato… ma tutto ciò ci fa dimenticare che, se siamo qui su questa terra, è perché qualcuno ci ha donato gratuitamente nientemeno che la vita: siamo destinatari di un amore più grande che, per sua stessa natura, non si è rinchiuso nel suo “io”.

Per i cristiani è proprio Dio, il primo a non essersi rinchiuso nel proprio “Io” ma ha scelto di porre la sua dimora nell’altro, nell’uomo, colui che ha creato proprio «a sua immagine» (Gn 1,27), diventando lui stesso, luogo di accoglienza capace di generare amore. In altre parole, Creatore e creatura hanno un’intrinseca relazione che genera la giustizia. A tal proposito, interessante è scoprire come la radice stessa del termine greco dikaiosynē (giustizia), dikē (figlia mitologica di Giove e di Temi, dea delle leggi e dei tribunali), fa riferimento a una molteplicità di significati che riguardano anzitutto, non a caso, il rapporto con Dio e il governo di sé. Da qui si evince come la giustizia è la caratteristica propria di Dio, che ne è il fondamento e il garante; in questo senso, «giustizia», più che osservanza cieca di una legge, è principalmente una caratteristica dell’essere umano.

Così essa consente di assegnare alle cose il loro giusto e vero posto per costruire l’armonia della creazione, rispettando così l’ambito che gli è stato assegnato e contribuendo al grande disegno del Creatore. Se anche solo per un istante potessimo rallentare il nostro frenetico ritmo quotidiano, come ho appena vissuto nell’istituto Comprensivo in cui insegno in occasione della settimana “Time out” in cui si è vissuto il tempo scholè, come un tempo lento, di riflessione, di confronto di idee ed esperienze, e assumessimo questa visione, ci renderemmo conto che «l’uomo, venendo al mondo, non dispone di tutto ciò che è necessario allo sviluppo della propria vita, corporale e spirituale» (Catechismo Chiesa Cattolica 1936). Anche solo questa dimensione di “debitore” verso l’ambiente in cui l’uomo e la donna spalancano i loro polmoni alla vita, basterebbe per placare l’egoismo che sempre più serpeggia e penetra i substrati della società impendendo la realizzazione di una società giusta.

Proprio per questo ciascuno di noi «ha bisogno degli altri»  (CCC 1936) per essere quello che “era”, che “è” e che “sarà”! Dunque l’altro non è la minaccia al mio Ego ma è la mia stessa realizzazione e il mio stesso compimento: da qui sgorga la pari dignità, la preziosa uguaglianza a «immagine e somiglianza» (Gn 1,26). Ciò che differenzia gli essere umani sono i talenti  che  non sono distribuiti “in misura eguale” (Cfr. Mt 25,14-30; Lc 19,11-27):  questa differenza non deve generare gerarchia piramidale bensì lasciar germogliare la caratteristica più meravigliosa e sorprendete dell’essere umano: l’unicità.

Ci ricorda Don Lorenzo Milani in Lettera a una professoressa: «Non c’è ingiustizia più grande che fare parti uguali tra diversi». Ebbene, «tali differenze rientrano nel piano di Dio, il quale vuole che ciascuno riceva dagli altri ciò di cui ha bisogno, e che coloro che hanno talenti particolari ne comunichino i benefici a coloro che ne hanno bisogno. Le differenze incoraggiano e spesso obbligano le persone alla magnanimità, alla benevolenza e alla condivisione; spingono le culture a mutui arricchimenti» (CCC 1937).

L’invio evangelico di «rinnegare se stesso» (Lc 9,23) diventa la chiave di volta, non per cancellare il proprio ego, ma per accedere alla strada il cui orizzonte è il suo stesso compimento: risuona profetico l’invito alla «cultura della cura» (Papa Francesco, LIV Giornata mondiale della pace, 2021)  per cui attraverso gesti di carità fraterna ci permette di vedere chi condivide l’avventura della vita come «un “prossimo”, un fratello».
«In questo solco nasce naturale il rispetto della persona umana che si mostra come “un altro se stesso”» (CCC1931) in cui «ognuno deve sentirsi responsabile di tutto» (don Lorenzo Milani, Lettera ai giudici). Davanti  alla crescita quotidiana di una cultura che ha come fine solo “usare gli altri”, generando continuamente esclusione e ineguaglianza, dobbiamo rafforzare il nostro impegno che ci appartiene in quanto esseri umani: “non stanchiamoci di fare il bene» poiché se persevereremo, «a suo tempo mieteremo». (Gal 6,9)

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