“Ci schieriamo sempre dalla parte
della Costituzione e della giustizia sociale”

Solo un passo indietro, al fatto di cronaca da cui parte l’iniziativa, così come lo ha riportato l’agenzia di stampa Ansa il 14 marzo scorso.
“Su 1.300 alunni del liceo scientifico Savarino di Partinico (Sicilia) ben 797 (il 73%) non vogliono che l’istituto prenda il nome di Peppino Impastato, il giornalista militante di Democrazia Proletaria assassinato dalla mafia nel 1978 per le sue battaglie contro i clan. Secondo i ragazzi, Impastato, ben connotato ideologicamente, sarebbe un personaggio “divisivo” proprio per la sua appartenenza politica. Gli studenti, inoltre, contestano una scarsa democrazia nell’iter che ha portato alla intitolazione della scuola alla vittima della mafia, iter complesso e pieno di colpi di scena, conclusosi nei giorni scorsi dopo due anni. Deluso e amareggiato il fratello del militante di Democrazia Proletaria ucciso dalla mafia. «Peppino è un personaggio amatissimo dai ragazzi, forse gli studenti del liceo non hanno studiato la sua storia», commenta.

Il gruppo di ragazzi “I disobb3dienti”, studenti dell’istituto nautico “Ciliberto” di Crotone, istituto che fa parte della Rete nazionale di Scuole che hanno aderito al Movimento educativo-pedagogico “Barbiana 2040” in seguito a questo evento, hanno deciso di scrivere , seguendo il metodo di don Milani della scrittura collettiva e coordinati dalla professoressa Rossella Frandina, una lettera aperta ai loro colleghi del liceo scientifico “Savarino” di Partinico. I ragazzi della città pitagorica in questa lettera prendono criticamente e motivandola, posizione sulla mancata intitolazione dell’istituto siciliano a Peppino Impastato.

Liceo scientifico Savarino di Partinico. 797 alunni, su 1.300,  non vogliono che il loro istituto venga intitolato a Peppino Impastato, il giornalista militante di Democrazia Proletaria assassinato dalla mafia il 9 maggio del 1978. Sarebbe proprio, secondo quanto riporta l’Ansa, la sua militanza politica a rendere, di fatto, Peppino Impastato un personaggio “divisivo”. Una notizia questa che non può certo passare inosservata, soprattutto per studenti come noi che, in Calabria, vivono condizioni sociali ed economiche molto simili a quelle dei ragazzi siciliani.
Don Peppe Diana diceva che a lui non importava sapere chi fosse Dio “ma solo da che parte stava”. Perché, aggiungiamo noi, nella lotta alla criminalità organizzata le parti non si equivalgono. Mai.  Peppino Impastato in Sicilia, Rocco Gatto e Peppe Valarioti in Calabria erano politicamente schierati. È vero.  Schierati dalla parte della giustizia sociale. Cioè della Costituzione. Quella praticata, quella racchiusa nell’articolo tre comma due. Per questo non possono e non devono essere considerati divisivi. Rinnegare Peppino, e con lui quanti hanno sacrificato la vita sull’altare di un’idea di democrazia vera, significa che della Costituzione continueremo a fare solo carta straccia perpetuando l’idea, distorta in potenza e distruttiva in atto, che la lotta alle mafie non sia la priorità in queste terre bellissime e disgraziate.  Perché intitolare una scuola a Peppino Impastato non è un atto formale ma una battaglia di democrazia “contro il puzzo del compromesso morale”. Su una porta a Rosarno campeggia, da qualche giorno, una targa in memoria di Peppe Valarioti. Quello è, secondo noi, un primo passo per costruire, anche in Calabria, una memoria collettiva condivisa capace di estirpare una cultura mafiosa che ha prodotto quella marginalità del sud, divenuta ormai una piaga storicizzata.

Le nostre, per troppo tempo, sono state terre di nessuno, preda solo di quei ceti dominanti di cui le mafie da sempre hanno fatto parte, prima con una veste agraria poi come borghesia imprenditrice e finanziaria. E questi ceti dominanti hanno impedito, di fatto, qualunque rinnovamento sociale.  Di fatto. Eppure Teresa Mattei quando fece aggiungere all’articolo 3 l’espressione “di fatto” pensava a ben altro. Aveva capito cioè che la Costituzione ha un senso e un valore se “di fatto” viene applicata.  “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che limitando di fatto…”, si dice in quell’articolo che è il cuore della nostra democrazia. Ed è a questo che guardavano Impastato, Gatto e Valarioti per rendere più giuste, con la forza dell’esempio, terre ingiuste.
A soli 19 anni, accanto a Danilo Dolci, Peppino Impastato aveva organizzato una marcia durata sei giorni attraverso i territori più difficili della Sicilia. In quella manifestazione si parlava di pace, di lavoro, di infrastrutture, di acqua. I mali atavici di tutto il sud, non solo della Sicilia. Fu una grande manifestazione popolare, scriverà lo stesso Impastato, il cui significato si doveva individuare nella condanna aperta della attuale classe dirigente e nella ferma volontà di rompere con una maniera di condurre la cosa pubblica  che sa di marcio.
Così mentre noi oggi ci siamo abituati a pensare che senza sangue non ci sia mafia, in maniera silenziosa, subdola, le mafie sono state capaci di infiltrarsi negli apparati di potere, nell’economia e nella finanza. Lo diceva già la relazione della commissione nazionale antimafia presieduta da Tina Anselmi. E anche questa relazione porta in calce una data particolare.  È un altro 9 maggio. Quello del 1984.  Eppure, nonostante tutto, chi è andato incontro a un destino di morte, nell’Italia dei riti e delle cerimonie, è rimasto da solo.
Oltre i cento passi, in questi anni, non siamo stati capaci di andare. Ecco perché non possiamo permetterci di cancellare quelle che furono voci di memoria, avamposti di democrazia, come ne esistono pochi. Soprattutto oggi che una certa antimafia ha tradito il mandato originario diventando sempre più consociativa e addomesticata. La contronarrazione inizia da qui. Perché un altro sud con la testa alta e la schiena dritta c’è sempre stato.  

L’inaugurazione della panchina, dedicata al giornalista e attivista Peppino Impastato ucciso il 9 maggio 1978 a Cinisi (Palermo), di fronte una scuola a Termoli.
Torna in alto