Ciro Corona da Scampia racconta
il valore della disobbedienza e della scuola

Io volevo fare l’educatore nella vita. Perché da piccolo mi sono trovato davanti a un bivio: una di queste strade mi diceva che potevo fare il camorrista. Ma non ho scelto di non farlo. Ho scelto un’altra strada grazie alla famiglia che ho avuto alle spalle. E grazie ad alcuni docenti che ho incontrato lungo il mio percorso anche di studio. Io ce l’ho fatta a uscire.
E così oggi ho quasi un senso di colpa per avercela fatta rispetto ad alcuni miei coetanei e ad alcuni amici del quartiere Scampia. Un senso di colpa che dentro di me mi ha messo un po’ in crisi. Ci ho pensato molto, ci ho riflettuto. E da queste mie riflessioni l’idea di restituire in qualche modo al mio territorio, alla mia realtà, quel privilegio che mi era toccato.
E allora, mi sono chiesto: che cosa possa fare?
Dalle mie parti, negli anni Novanta avevi due possibilità: o ti schieravi con la camorra. O te ne scappavi al Nord. Noi, un gruppo di sei amici, invece abbiamo scelto di restare qui. E di resistere nel quartiere. Ci siamo imposti di provare a cambiare, a trasformare questo contesto sociale e di realtà dal basso. E qui, di fronte a questo impegno e proposito, mi sono detto: io voglio fare l’educatore. E, ovviamente, se voglio fare l’educatore, voglio cominciare dal mio quartiere.

Ho iniziato da qui, da questo edificio. Mi sono trovato a iniziare il mio lavoro, cioè, da una struttura che era stata il mio istituto professionale quando andavo a scuola, è qua dentro che ho fatto le scuole professionali. A 13 anni quando ho finito la terza media, mio padre mi ha detto: “Vuoi andare a lavorare o vuoi andare a scuola?”. Ho risposto: voglio andare a scuola a patto che mi iscriviate alla scuola più vicino a casa. Era questa, era questo istituto professionale. L’ho frequentato per cinque anni. Ma sono stati cinque di scuola di vita più che di scuola professionale. Diplomato in tecnico delle Industrie tecniche ed elettroniche, ma ora nemmeno una lampadina so mettere…

Un periodo particolare, sono stati quegli anni. Questa scuola allora era frequentata dai figli del clan dei Maisto, era territorio controllato da loro. Vendevano droga ai ragazzi all’interno della scuola: mentre si faceva lezione, arrivavano, bussavano alla finestra, consegnavano l’haschish e marjiuana. E se ne andavano. È stata questa la mia scuola.
L’ho lasciata che aveva 300 iscritti. L’ho ritrovata nel 2016 che chiudeva.
Ha chiuso perché era in corso la feroce faida tra i clan di camorra che Gomorra ci ha raccontato anche fin troppo male. Così nessuno più la frequenta e la scuola chiude.
Davanti all’istituto avevamo la principale piazza di spaccio di droga, era dentro alle famigerate “case di puffi”, chiamate così perché più basse rispetto al contesto edilizio del territorio fatto di palazzi enormi e altissimi. Come le Vele.
Le scuola chiude i battenti. Resta vuota e abbandonata. La camorra nel 2006 pensa così di trasformarla in un deposito di armi.


Nel 2008 allora, scriviamo al sindaco del Comune di Napoli, allora era Rosa Russo Iervolino, e proponiamo invece di metterla a disposizione del nostro territorio, del nostro quartiere degradato e realizzare un progetto per recuperare i ragazzini che lavoravano come manovalanza nell’indotto della droga, ragazzi con i genitori che di notte confezionavano le dosi di droga e che quindi al mattino non si svegliavano mai in tempo per portare i figli a scuola. Così, all’inizio, eravamo noi che andavano a casa loro, bussavamo e prendevamo i ragazzini e li accompagnavamo in classe: questa era una parte del progetto raccontato al Comune. Il cuore era creare un centro per i bambini e i ragazzi, metterlo a loro disposizione per ogni attività, dal gioco allo studio. Il tutto sarebbe stato a costo zero per l’amministrazione comunale. Si è preferito lasciare dentro la camorra e le loro armi, per altri sei anni.

Abbiamo avuto le chiavi solo nel 2012 quando qui ormai c’era l’inferno. Due dati per rendere l’idea. Quando abbiamo pulito e bonificato la struttura abbiamo raccolto 45 bidoni della spazzatura pieni di siringhe. Qui dentro, i vialetti, ogni angolo del giardino erano coperti da un tappeto interamente di siringhe. Le abbiamo raccolte tutte, una alla volta con le pinzette: se ne sono andati da qui 12 camion della spazzatura. Un lavoro enorme, durato due anni, e che ha coinvolto 250 ragazzi volontari, provenienti da ogni parte d’Italia, richiamati anche grazie ai nostri campi estivi, attività che continuiamo a fare.
Prima ancora, i sei mesi precedenti alla consegna delle chiavi di questa struttura, per non annoiarci ci siamo fatti affidare un bene agricolo confiscato alla camorra, è qui distante cinque chilometri da Scampia. Alla fine di queste due esperienze mi sono detto: “Ma io volevo fare l’educatore. E invece mi sono ritrovato prima a raccogliere pomodori, pesche (140 tonnellate di pesche ogni anno), a produrre vino. E poi a spalare siringhe, pulire sangue, vomito, escrementi”.
Ma io volevo sempre fare l’educatore, nella mia vita. Una riflessione durata lo spazio di qualche secondo: bisognava andare avanti, mi sono detto.
E così abbiamo cominciato a fare le nostre attività anche con i detenuti. Ancora oggi in questa struttura, arrivano dal carcere di Secondigliano, mandati dal Tribunale di Napoli, 24 detenuti al mese, incontriamo e lavoriamo con oltre 100 detenuti all’anno e ormai sono dodici anni che facciamo questo lavoro: sono passati dai nostri laboratori e corsi di affidamento al lavoro più di mille persone detenute. Posso contare sulle dita delle mani le persone che sono tornate a delinquere.

C’è tanta voglia di riscatto, tanta voglia di cambiamento. Che cosa manca? Mancano le opportunità, le occasioni reali. Ed è per questo che sempre più volevo fare l‘educatore. Mi guardo indietro e riflettendo mi sono reso conto che comunque io stavo già facendo l’educatore, anche lavorando la terra e spalando le siringhe.
Me ne sono reso conto quando abbiamo iniziato a lasciare aperti i cancelli.  Un momento storico per noi e faccio sempre il paragone con la bandiera piantata nel terreno dal primo uomo sceso sulla luna. Ecco, l’apertura dei cancelli, di questo centro, è stata come aver ha piantato la bandiera in una terra conquistata. Questa era la nostra terra di conquista.
La conferma è arrivata lasciando i cancelli aperti: da allora abbiamo avuto un’invasione di bambini, una invasione.

Torniamo alla storia. Appena abbiamo finito la bonifica (e per bonificare questa struttura ci abbiamo messo due anni), dopo aver aperto i cancelli è partita la ristrutturazione vera e propria dell’edificio. Lo abbiamo fatto sempre senza avere soldi pubblici, ma attraverso risorse e contributi delle Fondazioni, da tutta Italia. Oggi questo centro, ospita dieci realtà sociali. Una ex-scuola è stata trasformata da piazza di spaccio in un centro “Officina delle Culture”, un luogo in cui la Cultura viene generata attraverso il fare e le relazioni: una scuola di pilates, una di danza che accoglie 400 donne del quartiere di Scampia, un risultato inimmaginabile anche per noi. C’è una scuola di scuola di baby danza che ospita altre 200 ragazzine del quartiere, abbiamo allestito una fattoria didattica che raccoglie animali sequestrati e confiscati alla camorra, abbiamo realizzato una biblioteca che ancora oggi ci chiediamo come sia possibile che questa struttura all’interno di un quartiere come Scampia abbia anche 25 tesserati iscritti, c’è una sala multimediale con 5 tablet.
È tutto questo che a volte ancora oggi ci stupisce.
La realtà evidentemente si era fatta conoscere. Così arriva la proposta della Siae: vogliamo fare una biblioteca, vi regaliamo 1.330 libri, la vogliamo fare in periferia e la vogliamo fare da voi. Bene, ma rispondo: a una sola condizione. Che le scaffalature della biblioteca le costruiscano i detenuti. Sennò non si fa nulla.
Otto detenuti sono stati coinvolti, stipendiati per tre mesi dalla Siae e hanno costruito scaffalature e avuto uno stipendio in un momento in cui qualche ministro raccontava che con la “cultura non si mangia”.


Poi è arrivata anche Amazon, evidentemente intuendo il “valore mediatico” dell’iniziativa. E si è fatta avanti per proporre anche lei qualcosa per il quartiere: ha chiesto di installare un locker, l’armadietto per il ritiro dei pacchi con i prodotti acquistati online. Gli ho risposto: “Cara Amazon, non venite a fare gli americani a Napoli. Il locker serve a voi. Se volete aiutarci, dovete lasciare qualcosa per questo territorio”. Alla fine abbiamo allestito una sala multimediale con sei tablet regalati da loro, ma la struttura sempre costruita dai detenuti e stipendiati da Amazon, dove i ragazzini vengono a collegarsi con i tablet donati.
È in questa sala, in coincidenza con il periodo del lookdown e con i bambini che dovevano seguire le lezioni a scuola, che ho conosciuto il piacere e l’ebbrezza di disobbedire. Perché a un certo punto, quando il mondo di fonte al Covid si è dovuto chiudere in casa io consentivo ai ragazzi di venire qua dentro. Erano loro che mi replicavano: “Ma tu ci hai detto che questa è casa nostra”. Molti avevano problemi a casa, pochissimi avevano internet, e così nel massimo della disobbedienza abbiamo fatto collegare da qua dentro ragazzini alle loro classi, per seguire le lezioni con i tablet e continuare a seguire il percorso educativo con noi. Ed è stato molto bello.
La biblioteca è un punto centrale del nostro Centro. Quando abbiamo pensata come farla, ci siamo detti: non possiamo fare una biblioteca tradizionale qua a Scampia, non avrebbe senso. Ci dobbiamo inventare qualcosa. I ragazzini non avevano mai visto una biblioteca e allora gli abbiamo chiesto come se la sarebbero immaginata: la vedevano colorata, con i giochi, poltroncine, con le foto, e con i libri. Così quella che doveva essere una sala lettura è diventata la sala dei bimbi: colorata, con i giochi, con le loro foto. In biblioteca abbiamo iniziato con loro un percorso di scrittura e di lettura creativa.
Ma ben presto ci siamo resi conto che lavorando con le mamme si era aperto un nuovo mondo. Lavorare con le mamme dei ragazzi significava lavorare con tutta la famiglia: i mariti (spesso in carcere) ci chiedono di avere l’affidamento al lavoro da noi, i figli tornano per il doposcuola, e al termine del doposcuola restano per fare karatè, danza, calcetto.
Avevamo aperto una porta e sono arrivati qua dentro.


Un giorno abbiamo chiesto ai ragazzini quale fosse il loro sogno, che sogno avevano per il loro futuro. Tredici ragazzini, dai 4 ai 13 anni, tredici risposte sostanzialmente uguali: “Noi campiamo alla giornata, non abbiamo sogni”.
Questa risposta per noi è stata straziante, è stato uno schiaffo.
Subito ci siamo detti: dobbiamo iniziare con loro un nuovo percorso che guardi al futuro. E allora abbiamo iniziato a leggere e raccontare favole, raccontando i protagonisti di quelle storie. Si sono travestiti da favole e personaggi di quelle favole, spesso cambiando anche il finale delle storie quando non gli piaceva. Ognuno era diverso dall’latro, ognuno di loro ha fatto un percorso differente.
E qui io mi sono innamorato di Angela. A 4 anni arriva da noi. Parla solo il napoletano. La storia di questa bambina è allucinante: senza mamma, senza papà, cresce con la nonna. Va a scuola perché la nonna se la deve togliere dalle scatole, quando va a scuola, dalle 13,30 a quando esce da scuola fino alle nove di sera Angela è per strada. Quando la intercettiamo, le chiediamo se vuole venire qua. Angela accetta e inizia volentieri, parlando sempre e solo in napoletano.
Iniziamo anche con Angela un percorso insieme, viene sempre, è la più piccola e diventa anche un po’ la mascotte della struttura. Passa un anno e  Angela un giorno arriva portando un’amica. Si ferma con lei sulla porta, la guarda e le dice in stretto napoletano: “Uè, qui devi parlare solo italiano, sennò ti cacciano fuori”.
Questo lavoro con Angela è durato tre anni, lo abbiamo dovuto interrompere non per nostra volontà. Angela ora è in una casa famiglia.
Ma dopo tre anni a quegli stessi ragazzini gli abbiamo rifatto la stessa domanda di allora: “Oggi, che sogno avete?”.
Fra le tante risposte, tutte davvero meravigliose, c’è stata quella di Angela (anche se riportando solo questa mi accorgo di essere un po’ di parte). In stretto napolteano ha risposto: “Io non lo so qual è il mio sogno, ma so che ora posso sognare.
È stato qualcosa di spettacolare, per noi.

Così come il ragazzo arrivato da noi al Centro. Il papà, killer di professione, gi era stato ucciso, lo zio morto ammazzato anche lui. Quando è arrivato al centro ci ha detto: “Io vengo qua, perché la camorra si è portata via mio padre, ha ucciso mio zio. Si è portata via il mio passato. Voglio almeno che non si prenda anche il mio futuro”.
Questo ragazzo si è fatto un anno e mezzo di percorso con noi, oggi fa il pizzaiolo in provincia di Napoli, è sposato, ha due bambini, ha chiuso ogni tipo di rapporto con la famiglia e quando lo incontro mi dice: “Se non avessi trovato quei cancelli aperti forse sarei ancora dall’altra parte”.

Questo devono rappresentare i beni confiscati, a questo devono servire quei beni: diventare luoghi in cui si creano opportunità di scegliere per chi nella vita questa opportunità non la vede proprio perché non ce l’ha. A noi l’idea di costruire apparati di potere, carriere politiche, accomodamenti è un’idea contro cui lottiamo ogni giorno. E ogni giorno ne paghiamo le conseguenze. Perché questa struttura dopo averla bonificata, dopo averla ristrutturata e finita, dopo aver avviato il doposcuola e portato i ragazzini qua dentro, con mamma e papà, scoppia la bufera.  Se inizialmente davamo fastidio alla camorra, poi nemmeno più la camorra era infastidita dal nostro Centro.
Dopo tre anni di attività, è il Comune di Napoli che ci fa sapere che questa struttura serviva a loro, gli dovevamo restituire le chiavi.
Ma per farci cosa? Una scuola? Allora nessun problema. No, dovevano arrivare gli uffici della Nettezza urbana.
Non ce ne siamo andati. E così, dal 2018 occupiamo abusivamente questa struttura: il Comune non ha più rinnovato i contratti e non lo ha fatto per volontà di qualcuno a cui dava fastidio il nostro intervento.

E qui comincia un’altra storia assurda, dai contenuti davvero paradossali.
Oggi la nostra attività è cresciuta così tanto, è dal 2007 che continuiamo a lavorare qua dentro e nonostante oggi il mancato contratto e la condizione di abusivi noi restiamo qui, continuiamo a resistere e ci torniamo ogni giorno. La solecitazione del presidente della Repubblica è stata esplicita, ed è stato significtaivo che Sergio Mattarella, la più alta carico dello Stato, abbia riconosciuto il lavoro fatto qua dentro in vent’anni e che nel 2021 mi abbia consegnato l’onorificenza di Cavaliere della Repubblica, nonostante sia un abusivo. Quando l’ho incontrato, l’unica cosa che mi ha detto è stata questa: “Non si fermi davanti a niente e a nessuno”. È stato un grazie per aver portato l’antimafia sul territorio.
Sono tornato a Napoli. E nel viaggio mi sono detto: c’è qualcosa che non quadra. Con questa bandiera della vittoria, chiamo il Comune e dico: mettetevi d’accordo, perché se per il Capo dello Stato il nostro lavoro è da premiare, possibile che per voi siamo abusivi? Se voi ci volete cacciare, allora non è possibile che il Tribunale di Napoli ci riconosca come punto di riferimento e ci mandi 120 detenuti all’anno per seguire i nostri percorsi di formazione al lavoro. E se siamo abusivi, non ci potete chiamare per avvisarci di ospitare 35 ucraini scappati dalla guerra. Perché noi, quelli a cui chiedete di ospitare i profughi e il Tribunale i detenuti, siamo gli stessi che chiamate “abusivi”.
Oggi, inoltre, nella stessa strtuura abbiamo due case famiglie, le uniche autorizzate a restare.

E allora dico: di fronte a tutto questo diventa veramente allucinante dover ascoltare le grida dell’emergenza educativa, della dispersione scolastica in un contesto come quello di questa città in cui da vent’anni le politiche sociali e giovanili sono completamente fallite o inesistenti.
E allora: o partiamo da qui, o non ne usciamo più. Coincidenza a voluto che di fronte a questa ennesima emergenza, rilanciata dalla morte del giovane musicista di 24 anni in pieno centro a Napoli, proprio in questi giorni, due giorni abbia incontrato uno dei ragazzi che aveva frequentato questa struttura, veniva qua per frequentare il dopo scuola, e l’ho incontrato perché la mamma mi aveva detto che l’avevano arrestato, stava facendo il pucher alle Vele. Come mai è successo? Perché qua non c’era più nulla da fare, andava in piscina e la piscina l’hanno chiusa, c’era un centro di educazione territoriale e l’hanno chiuso. Ecco, noi stiamo servendo alla camorra sul piatto d’argento i nostri giovani.
Davanti a tutto questo torno a fare quello che sto facendo precisando che noi lavoriamo con le istituzioni, siamo fieri e contenti di lavorarci, ma non lavoriamo con persone che riteniamo non degna di rappresentare le istituzioni. E quindi, contrariamente a come ci definiscono Comune e amministrazione comunale, annuncio che dal 1° ottobre, dopo l’arresto del ragazzo che lavorava qua, abbiamo deciso senza autorizzazione e senza consenso istituzionale, di aprire il doposcuola all’interno del Centro “Officine delle Culture”. Lo apriamo consapevoli del fatto che dopo due giorni, mi verranno a chiamare per chiedere spiegazioni. E io risponderò: fino a quando ci farete restare, noi continueremo a fare attività qua dentro.
E allora dovete decidere: o mi cacciate, perché sono abusivo. O mi fate pagare un contratto regolare, con il pagamento di un affitto. Il contratto è pronto da firmare da giugno dell’anno scorso, ma mai firmato perché all’ultimo tavolo tecnico non si è presenta il dirigente del Comune di Napoli. Come mai? La loro risposta: se proprio volete che firmiamo, allora dovere riservare due stanze di rappresentanza al Pd.  La mia risposta: “Guardate, non glielo fatta mai avere al clan dei Di Lauro, in vent’anni, figuriamoci se le faccio avere al Pd”.
Credo e sono convinto che sia stata la scelta giusta.

Dal primo ottobre porteremo qua dentro 40 bambini perché è l’unica strada per prosciugare il bacino dal quale la camorra prende ancora oggi la sua manovalanza. In modo formale o in modo informale bisogna fare questa guerra, altrimenti questa guerra la perdiamo di nuovo. E siccome le guerre non mi piace perderle, dal primo ottobre cominceremo con questo nuovo corso.

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