A Scampia cresce una Barbiana
che riscrive l’orizzonte di nuove vite

Angela, (nome vero), 4 anni, senza mamma e papà. Affidata a una nonna che aveva altro da fare e così la metteva in strada alle otto del mattino per riprenderla alle nove di sera. Dieci-undici ore in balìa di se stessa e di chiunque altro.
Salvatore (nome di fantasia) meno di vent’anni, papà e zio uccisi nelle faide e scontri di camorra per il controllo del mercato della droga: un passato trucidato e cancellato, un futuro da scegliere e tutto da costruire.
Sono due storie, oltre che reali, simbolo di un contesto delle “periferie del tempo presente”: se messe vicine l’una all’altra fino a unirle nei loro passati e nei loro nuovi destini non si fa fatica a vedere i due pezzi che formano il cuore di Ciro. Li dentro, in queste due storie di pedagogia dell’amore, sta tutto il valore di Ciro Corona. È un incontro che “ti provoca, ti scuote”. E ti chiede di prendere posizione.
Angela e Salvatore sono due vite apparentemente senza alcun futuro, ma raccontano perfettamente tutto di un don Milani di oggi: la scelta etica e morale del restituire, l’impegno quotidiano, il lavoro massacrante non solo fisico di tutti i giorni che lo obbligano a rimettersi in gioco ogni nuovo giorno. L’ascolto continuo di chi ha bisogno, a ogni ora del giorno e della notte, anche se stai a pranzo e stai parlando con amici, o sei in famiglia a cena la sera con tua figlia e la tua compagna. Ti alzi e vai ad ascoltare chi bussa e raccogli il suo bisogno. Ciro è questa persona.
Ma Ciro è soprattutto andare a cercare di casa in casa i più piccoli e i ragazzini per portarli a scuola, cercarli e strapparli alla strada, portarli a giocare, a leggere, a studiare, dare loro un minimo di parola che possa farli persona, dignità, futuro, progetto di vita.
Bastano due giorni con Ciro, per capire quant’è permeata la sovrapposizione con lo stesso spirito di riscatto che viveva don Milani con i suoi “figlioli”, stessa testardaggine, stessa volontà di resistere.
E allora non si può che partire da qui. Mi piace sempre, da giornalista, raccontare la realtà aprendo “gli occhi per vedere e non solo per curiosarci”. Un’occasione anche per iniziare a cambiare la rappresentazione della realtà, per ribaltare una narrazione sbagliata e a senso unico, per raccontare altre vite che vogliono farsi notare. Anche perché mi capita spesso di notare un effetto strano: il risultato perverso delle rappresentazioni sbagliate è più forte su chi non fa esperienza diretta della diversità da chi vive fuori da questo schema. E in questo tempo di social, stereotipi e pregiudizi si moltiplicano quasi senza fine. Così, messa a posto ogni cosa, ecco tutto il parallelismo che emerge con la storia, in questo caso, del priore di Barbiana e del suo impegno educativo e di emancipazione.


Ci chiediamo sempre chi sono oggi i ragazzi di Barbiana. Ecco, un giorno con Ciro Corona e sono loro a venirti incontro.
Ciro nasce e vive a Scampia, aveva un sogno. Volevo diventare educatore di strada, ce lo racconta molto bene nel suo intervento qui. Ciro esce da quelle case chiamate Vele famose per la loro forma (larga alla base e su su fino al tredicesimo paino per stringersi in cima, a mo’ di vela appunto) e che negli anni ’70 ci dovevano portare nel futuro dell’edilizia economica e popolare dell’Italia. La storia di queste abitazioni e la vita dentro a queste case invece la sappiamo bene, anche per come è stata “raccontata tanto male”, sottolinea Ciro, da Roberto Saviano. Non è un caso la polemica di questi ultimi giorni, sull’onda soprattutto degli eventi di Caivano e dei provvedimenti che ne sono nati, fra lo scrittore e le accuse mosse dall’ex sindaco di Napoli ed ex magistrato, Luigi De Magistris, di “voler raccontare solo il brutto e il male di Napoli”. E invece qui c’è molto altro: di bello, di costruttivo e di educativo.

Ciro Corona, 42 anni, è stato un ragazzo che a 13 anni aveva due futuri davanti: o diventare camorrista anche lui, come tanti suoi coetanei e amici, molti finiti morti ammazzati. Oppure scappare al Nord. Lui no, con altri sei amici sceglie di restare a Napoli, a Scampia, rione di Napoli che conta 60mila residenti, una cittadina media del Nord. Il viaggio delle insegnanti, dei docenti e dei dirigenti del Movimento Barbiana 2040 si è fermato qui, per la sua terza tappa nelle scuole della Rete.
E Ciro lo troviamo qui davanti alla sua prima coincidenza con don Milani. Il priore è trasferito a Barbiana, luogo isolato e sperduto, in un posto dove, ci ricorda sempre Edoardo Martinelli, “non c’era nulla, né luce, né acqua, né gas”. Ma don Milani raccoglie la sfida, la rilancia e trasforma Barbiana in un luogo di emancipazione sociale e culturale. Ciro Corona sceglie lui la “sua Barbiana” e riparte allo stesso modo da un luogo abbandonato, dove prima c’era una scuola, poi chiusa e quindi luogo calpestato dalle istituzioni, lascito al degrado. Anche qui non c’è nulla. Bisogna ripartire da zero e ricostruire tutto. Dopo due anni di bonifica apre un centro culturale, l’”Officina delle Culture” e dentro ci sono spazi anche per fare scuola e doposcuola. Dopo quasi vent’anni, dal nulla Scampia ha una “Officina delle Culture” diventata punto di riferimento educativo e culturale per il territorio. Diventa soprattutto un “luogo di concretezza, di un amore reale per pochi, un luogo definito”.


Scrive Ivo Lizzola, docente di Pedagogia della marginalità, che “è irripetibile Barbiana, come Calenzano, perché la fedeltà e la speranza sono da fare e rifare continuamente, in modo nuovo e inedito, in tanti particolari luoghi, in tante scuole e comunità”. Nell’”Officina delle Culture” questo rinnovamento continuo, dove “si fanno esperienze e pratiche di partecipazione” è presente ogni ora: è il luogo in cui tutto si rinnova costantemente, soprattutto si rinnova la speranza con azioni vere di creare ogni giorno una opportunità di riscatto per qualcuno. “Perché qui è forte la voglia di riscatto” ci ricorda Ciro. E lo racconta molto bene qui.
E mentre ne parla a tutti introduce il secondo tratto forte di sovrapposizione con don Milani: quel precetto etico dell’“obbligo di restituire”, quel senso di colpa per avercela fatta. Un privilegio o un merito verso i meno fortunati (poveri, amici, coetanei) che invece non sono riusciti a trovare liberazione in un futuro diverso. È la stessa sindrome (del sopravvissuto, con le dovute proporzioni), che molti degli scampati alle barbarie dell’Olocausto e della Shoah hanno manifestato proprio per essersi salvati. Primo Levi lo racconta con profondità nel suo I sommersi e i salvati.
Don Milani deriva il suo senso di colpa dall’essere “un borghese”, un privilegiato sociale, economico, culturale, per quella parte in cui individua nella cultura, e in particolare nella padronanza della lingua, il vero privilegio. Ciro lo spiega agganciando il suo “senso di colpa” all’essere “scampato” da una sorte in cui altri suoi amici invece hanno trovato la fine della loro vita o un destino più drammatico. Lo interpreta come un privilegio e per questo vuole “saldare” quel conto allargando quel privilegio al suo territorio. Lo fa partendo dal recuperare il simbolo di questo riscatto, una scuola chiusa perché occupata dalla camorra.

Ma è anche il terzo percorso che si sovrappone a quello di don Milani. Riparte dai ragazzi, dai ragazzini che la scuola esclude o, peggio, non ha mai visto. Se è vero che la scuola non boccia più è altrettanto una realtà che la scuola i suoi ragazzi li perde comunque. Nel Mezzogiorno, e Scampia è nel cuore del Sud, spesso quei ragazzini non li vede proprio arrivare. Ce lo ha raccontato molto bene con numeri e analisi Rossella Frandina qui, docente di Lettere a Crotone, in Calabria: il 25% dei ragazzi abbandona la scuola. Non è affatto vero che di “poveri Cristi, almeno come li conobbe don Milani a Barbiana, oggi ce n’è pochi” e come malamente sostiene chi tenta di infangare la figura educativa del priore. La scuola perde ragazzini ogni giorno, e non è solo abbandono o dispersione scolastica, implicita o esplicita che sia. C’è tanto vuoto, tanta assenza e incapacità delle istituzioni, delle amministrazioni, dei servizi sociali “che in questi rioni non ci vogliono proprio andare” ci racconta Ciro. Nessuno insegue e intercetta quei ragazzini per portarli a scuola. E così, come faceva don Milani con i genitori contadini, piantandosi davanti alle porte delle loro case, lo stesso fa Ciro Corona oggi: va di casa in casa, con i genitori spesso “occupati” come manovalanza in attività e traffici illeciti o criminali, a bussare alla porta e accompagnare quei ragazzi dentro la classe. Ma quando a fine lezioni suona la campanella, si affaccia un altro rischio: la strada è pronta a inghiottirli, fino a tarda sera. E allora Ciro apre i cancelli del Centro per tutti: per fare i compiti, per fare danza, per imparare musica, per leggere, per giocare. Per insegnare ai ragazini come stare con gli anamali, la fattoria didattica è stata messa in piedi con gli animali confiscati alla camorra e regalati al Centro: ci sono due oche (Alessandra e Giorgia), c’è il cane che prende per la coda il pony Crocco sennò quello non esce dal recinto, c’è il maialino Matteo e il caprone Covid. E c’è un parco giochi bloccato da anni nonostante ci siano già pornti 30mila euro da spendere.
I ragazzini però ci vanno al centro, sono contenti. E così poi ci vanno le mamme. E alla fine ci vanno anche i papà, carcerati ma che chiedono di essere affidati alla formazione e ai percorsi di lavoro che Ciro ha predisposto. Ciro in questo si è preso tutta quella responsabilità che don Milani dava ai ragazzi più grandi di Barbiana: fare scuola ai più piccoli, diventare loro maestri di chi è messo come era lui, e prendersi cura di chi forse stava anche peggio.


È in questo altro passaggio che Ciro raccoglie la stessa forte voglia di riscatto di cui parla don Milani con i suoi contadini e i loro figli. E che Ciro ha deciso di fare sua, a tutti i costi.
Lo fa anche disobbedendo e facendo resistenza agli schiaffi e alle contraddizioni delle istituzioni: il capo dello Stato che lo premia con una onorificenza alla Repubblica per il lavoro fatto, ma l’amministrazione comunale di Napoli lo considera un abusivo. Il Tribunale di Napoli che gli manda i detenuti per un lavoro, per una forma nuova di inclusione e rieducazione, ma i servizi sociali si rifiutano di passare dalle famiglie. Disobbedire, a questo punto, per Ciro è un atto che si ricopre di valore educativo. E come racconta bene qui Giancarlo Costabile, docente di Pedagogia dell’Antimafia, è un atto di giustizia e una sfida reale. Il metodo, direbbe sempre Ivo Lizzola, è “provocare la qualità del nostro esserci”, del nostro abitare gli spazi di libertà che abbiamo o ci siamo creati. Il Centro “Officina delle Culture” di Ciro è uno di questi spazi di libertà in cui domina una grande capacità di progettazione in un contesto difficile, di emergenza continua, a partire dai dati di realtà. E la scuola è un altro di questi luoghi, luoghi della comunità umana in cui, come alla Officina delle Culture ci si sostiene reciprocamente, si riprogettano biografie personali e familiari, si cambiano gli orizzonti dei progetti di vita per mantenere una tenuta delle relazioni con il territorio, con la propria terra. La sollecitazione di Rita Fumagalli, professoressa e dirigente scolastica della scuola capofila di Barbiana 2040, in questo senso è categorico e fortemente milaniano: facciamo di questi contesti di realtà il nostro compito, prendiamo la realtà come compito di partenza per una scuola autentica.

La disobbedienza è uno strumento. Per questo Ciro ha deciso di aprire comunque il prossimo 1° ottobre, a Scampia, il doposcuola. Nonostante viene considerato un abusivo, nonostante le istituzioni non lo riconoscano, quel doposcuola non solo toglierà quaranta bambini dalla strada e da altri destini. Ma indicherà a tutti che ci sono persone impegnate a cambiare la propria storia, persone che stanno prendendo in mano il cambiamento della propria vita anche se intorno a loro non sta cambiando proprio nulla. Mi sono accorto che è un lavoro importantissimo. Me lo ha detto Ernesto, un ex detenuto, 14 anni di carcere per essere stato il capo piazza di spaccio per un clan alle Vele di Scampia. Oggi lavora a tempo pieno per sostenere con Ciro all’Officina delle Culture. Mi racconta la sua storia, ha figli e nipoti. E mi dice che con quella vita di prima ha chiuso. E che sebbene “sono partito da una situazione buia e senza prospettiva, è con questo lavoro che tutto è diventato più chiaro e più consapevole”. Anche lui ce l’ha fatta. Non so se si “sente in colpa” e crede di non meritarsi di avercela fatta, non me l’ha detto. Ma è certo che un senso nuovo alla sua nuova vita lo ha certamente scoperto. E ne è sempre più consapevole.

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